Ciclismo, le grandi salite: l’Alpe d’Huez. Altimetria ed analisi percorso
Una salita insidiosa, con i suoi ventuno tornanti – ognuno dei quali dedicato a un campione del ciclismo che vi ha trionfato – questa è l’Alpe d’Huez, ovvero “la salita”, come è chiamata dai francesi.
- IL MITO
La salita gode di fama enorme, soprattutto oltralpe, e questo nonostante la sua comparsa al Tour risalga soltanto agli inizi degli anni Cinquanta. Ci sono salite francesi che vantano ben altra storia, eppure i suoi tornanti non solo sono diventati uno dei grandi simboli del Tour, ma rappresentano ormai un’icona del ciclismo in genere, a tutti i livelli.
Ogni anno folle di appassionati convergono quì per cimentarsi con la salita più celebre di Francia e con la sua leggenda, e in molti prendono parte alla Marmotte, una delle più importanti granfondo del calendario internazionale, il cui arrivo è posto, dopo la bellezza di 174 chilometri, proprio in cima all’Alpe d’Huez.
Insomma, una salita dal fascino fatale e interamente consacrata alle imprese di coloro che su queste rampe, con coraggio o incoscienza, sfidano i propri limiti, a proposito dei quali è bene sapere che il record di scalata è stato stabilito da Marco Pantani nel 1997, con 37’ e 35”, alla stratosferica media di 23,08.
- 21 TORNANTI
La salita, 1091 metri di dislivello in poco più di 14 chilometri, sovrasta con la sua imponente serpentina di tornanti la valle della Romanche e il paese di Le Bourg d’Oisans, tradizionale punto di partenza per l’ascesa: dopo aver imboccato la statale in direzione Briançon si attraversa il Pont de la Romanche e si svolta a sinistra per Sarennes. È qui che ha inizio ufficialmente la salita, con tanto di striscione (c’è anche un sistema di cronometraggio che permette a chiunque di rilevare il tempo di scalata: il diploma vi sarà offerto in omaggio dal locale ufficio turistico).
Dopo poche centinaia di metri pianeggianti la strada si alza di colpo in modo perentorio, imponendo il ricorso ai rapporti più agili a disposizione. Non c’è assolutamente modo di scaldarsi o di abituarsi gradualmente alla pendenza; i primi chilometri sono i più ostici dell’intera ascesa e si aprono con un lungo rettilineo aspro che porta al primo tornante, il numero 21.
Come sullo Stelvio, anche qui i tornanti sono numerati in ordine decrescente, a scandire a ritroso l’interminabile fatica sui pedali; su ciascuno di essi un cartello segnala un vincitore, cominciando dai più remoti, e il 21 è dedicato, ovviamente, a Fausto Coppi, primo a trionfare su questa montagna nel 1952.
Le pendenze sono subito traumatiche, intorno all’11%, e si mantengono tali anche dopo il primo tornante, con un altro rettilineo in tutto simile a quello appena percorso. Siamo solo all’inizio e le gambe stentano a girare, ma la costante durezza della strada impone di trovare già su queste prime rampe una cadenza di pedalata che non porti in affanno: l’ascesa è lunga e impegnativa fino alla fine, e andare fuori giri qui significa dover pagare più avanti.
Passato il secondo tornante, gli altri si susseguono a distanza più ravvicinata, ma tutta questa prima parte di salita rimane sempre ostica – due chilometri e mezzo tremendi dal primo all’ultimo metro, che non concedono mai respiro fino al diciassettesimo tornante (quello di Joaquim Agostinho, vincitore nel 1979; a lui è dedicato anche un monumento commemorativo più avanti, al tornante 14).
Qui la pendenza inizia finalmente a calare e all’altezza di La Garde la strada spiana per pochi metri, quel tanto che serve per riprendere fiato. Il chilometro che segue, al 7%, è uno dei più agevoli di tutta l’ascesa; dopo, la strada si assesta su pendenze decisamente più impegnative, mentre i tornanti successivi (dal 13 all’ 8) si susseguono a distanza regolare. La strada è ampia e ben tenuta, ma l’ombra è cosa rara e il sole picchia senza riguardo, aggravando non poco la fatica di chi sale.
- NEL CUORE DELLA SALITA
Il tornante numero 7 (a quota 1390 m, dopo aver percorso più di 8 km di salita) è il primo dei due dedicati a Gianni Bugno, che qui vinse nel 1990 e nel 1991, e a lui si lega uno dei tratti più duri de tracciato.
Passata la chiesetta di St. Ferréol (proprio sul tornante; subito dopo, sulla destra, c’è la possibilità di rifornirsi d’acqua), il paesaggio cambia e per la prima volta si intravede la meta. Non c’è agio di contemplare il panorama, perché subito le pendenze tornano a sfiorare il 10%, mentre all’uscita del tornante successivo toccano il 12-13%, la punta massima dell’ascesa.
Arrivati all’incrocio della Patte d’Oie, a tre chilometri circa dalla fine, la strada si divide: il percorso ufficiale impone di prendere a sinistra (direzione Station entrée Ovest), ignorando l’altra opzione – in caso contrario, si arriva ugualmente in cima ma si perdono gli ultimi tornanti, e i due che arrivano subito dopo sono dedicati alle vittorie di Marco Pantani nel 1995 e nel 1997.
Da quì in poi le pendenze si fanno sentire senza pietà, mentre la stanchezza accumulata comincia ad appesantire la pedalata: è il momento di stringere i denti, perché manca poco.
L’ultimo tornante, accolto con effimero sollievo, immette a una rampa assai dura di circa 700 metri che conduce a Place Paganon (1764 m), dove è posto lo striscione d’arrivo – ma non fatevi trarre in inganno e tirate dritti, perché non è qui che la salita finisce.
Bisogna andare ancora avanti per più di un chilometro ancora e raggiungere quota 1815. In compenso sono finite le tribolazioni, perché la salita continua ormai senza cattiveria e i pochi metri che restano per raggiungere Avenue du Rif-Nef, tradizionale arrivo del Tour, sono quasi una passerella trionfale.